il colonnello buontemponi

La finestra era grande e rettangolare, me lo ricordo ancora. Sulla parete di fronte alla cattedra, in fondo alla classe. I banchi li mettevamo a ferro di cavallo e quindi se giravo la testa a sinistra vedevo la lavagna nera, se  la giravo a destra vedevo il cielo sopra i tetti. A volte, quando era primavera e quasi estate, facevamo lezione con la finestra aperta. Mi ricordo: si vedevano i tetti delle case più basse, ma poi sopratutto cielo e a sinistra un monte, che in primavera era tanto tanto verde. In quarta elementare o giù di lì, arrivò il maestro di musica con il metodo. Da quando era arrivato non si poteva più cantare o scrivere le note colorate come avevamo sempre fatto, bisognava usare il metodo e dire “ta”, “ta-ta-ta” e “tiri-tiri-ta”. E anche battere le mani. E non cantare mai. Allora quando lui entrava in classe, io giravo la testa a sinistra e guardavo l’azzurro del cielo e il verde del monte, e guardavo anche le rondini e le ascoltavo cantare, mentre tutti gli altri facevano “ta ta ta” che a pensarci bene, proprio niente aveva di musicale. Così una mattina il maestro con il metodo, che si arrabbiava spesso e ci diceva che lo facevamo stancare molto, esasperato dalla mia nuca, fece chiudere la finestra e mi disse di smettere di guardare sempre fuori, come il colonnello buontemponi. Grande imbarazzo, per di più che la mia attenzione non era per niente necessaria e il colonnello buontemponi proprio non esiste. Così, insieme al canto delle rondini,  anche l’ultima traccia di musica restava fuori dalla finestra.

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